Con la sentenza n. 20 del 2022, la Corte costituzionale ha dichiarato:
1) inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, co. 1-bis, ord. penit., sollevata, in riferimento all’art. 27, co. 3, Cost., dal Magistrato di sorveglianza di Padova;
2) non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, co. 1-bis, ord. penit., sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Magistrato di sorveglianza di Padova.
La Consulta ha ricostruito la disciplina oggetto di censura, richiamando anzitutto la sentenza n. 253 del 2019, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 4-bis, co. 1, ord. penit., nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti ivi contemplati, possano essere concessi permessi premio, anche in assenza di collaborazione con la giustizia, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Con quella pronuncia di accoglimento, dunque, la presunzione di pericolosità del detenuto non collaborante non ha più carattere assoluto ma è diventata relativa. Successivamente alla sentenza n. 253 del 2019, si sono delineati nella interpretazione della giurisprudenza di legittimità due distinti regimi probatori: uno riferibile ai detenuti per i quali la collaborazione risulti impossibile o inesigibile, l’altro applicabile ai detenuti non collaboranti per propria scelta. Per i primi, infatti, è sufficiente acquisire elementi che escludano l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata; per coloro i quali, invece, abbiano scelto di non prestare una collaborazione ancora possibile ed esigibile è necessaria, sempre al fine di superare il meccanismo ostativo, l’acquisizione di ulteriori elementi, tali da escludere anche il pericolo di ripristino dei suddetti collegamenti.
A seguito della sentenza qui pubblicata, l’assetto normativo imposto dal diritto vivente resta invariato, dal momento che la Consulta ha valorizzato la difformità di regime probatorio applicabile a chi non ha collaborato “per sua scelta” e a chi non ha collaborato “suo malgrado”.
Il rimettente aveva censurato proprio la differenziazione di disciplina per le due categorie di condannati sopra menzionate, reputandola in contrasto con gli artt. 3 e 27, co. 3, Cost.
La Corte ha rilevato, anzitutto, l’inammissibilità della questione sollevata in riferimento all’art. 27, co. 3, Cost., ritenendo la motivazione della censura oscura, apodittica e intrinsecamente contraddittoria. Secondo i giudici costituzionali, il rimettente non ha spiegato adeguatamente perché l’auspicata valutazione individualizzata, in caso di collaborazione impossibile o inesigibile, sia preclusa, alla luce dei margini di valutazione concessi al magistrato di sorveglianza nel giudizio sulla meritevolezza del beneficio.
Inoltre, la Consulta ha dichiarato non fondata, nel merito, la questione residua, sollevata per violazione dell’art. 3 Cost., poiché ha escluso che la differenziazione di trattamento censurata dal rimettente determini una lesione del principio di uguaglianza.
Per il Giudice delle leggi è corretto distinguere la posizione di chi “oggettivamente può, ma soggettivamente non vuole” (silente per sua scelta), da quella di chi “soggettivamente vuole, ma oggettivamente non può” (silente suo malgrado).
Infatti, come ha osservato la Corte, il carattere volontario della scelta di non collaborare costituisce – secondo l’id quod plerumque accidit – un sintomo di allarme, tale da esigere un regime rafforzato di verifica, esteso all’acquisizione anche di elementi idonei a escludere il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata, senza i quali la decisione sull’istanza di concessione del permesso premio si arresta già sulla soglia dell’ammissibilità. Quando invece la collaborazione non potrebbe comunque essere prestata, non rileva l’atteggiamento soggettivo del detenuto e, dunque, ciò consente di circoscrivere il tema di prova – ai fini del superamento del regime ostativo – all’esclusione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata.
La Corte ha concluso nel senso che questa differenziazione non appare irragionevole.
Tanto è stato sufficiente per rigettare la questione, senza dimenticare – si legge nella sentenza – che la previsione delle ipotesi di collaborazione impossibile o inesigibile scaturisce da ripetute pronunce costituzionali (sent. cost. n. 68 del 1995, n. 357 del 1994 e n. 306 del 1993), tese appunto – nella vigenza di un regime basato, senza eccezioni, sulla presunzione assoluta di pericolosità del non collaborante – a distinguere, con disposizioni di minor rigore, la posizione del detenuto cui la mancata collaborazione non fosse oggettivamente imputabile.
Infine, la Consulta ha sottolineato che la valutazione giudiziale delle convinzioni soggettive di tutti i detenuti non collaboranti, per scelta o per impossibilità, potrà sempre avvenire ed essere opportunamente valorizzata, nella fase dell’esame concernente le condizioni di meritevolezza indicate dall’art. 30-ter ord. penit. per la concessione del permesso premio.